Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Il giovane marocchino esulta: «Grazie Italia». Frattini contro i Paesi europei che hanno ospitato prigioni Cia
«Non è terrorista»: assolto l'islamico Daki
Milano, la sentenza della Forleo confermata anche per due tunisini.
dal Corriere - 29 novembre 2005
Assoluzione per tutti e tre anche in secondo grado. Per la Corte d'Assise d'Appello di Milano il marocchino Mohammed Daki e i due tunisini Maher Bouyahia e Ali Ben Sassi Toumi non sono colpevoli di terrorismo internazionale. Si tratta dei tre islamici che nel gennaio scorso il gup Clementina Forleo assolse dalla stessa accusa scatenando molte polemiche. Esultanti gli imputati: Daki (assolto da tutte le accuse mentre i tunisini sono stati condannati a 3 anni per un altro tipo di reato) ha ringraziato l'Italia.
Franco Frattini, commissario Ue a Giustizia, libertà e sicurezza, ha definito inevitabile la sospensione dei diritti di voto a quei Paesi europei che hanno ospitato le prigioni Cia.
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Assolti i tre islamici accusati di terrorismo
Confermata la sentenza del gup Forleo. Daki: «Interrogato da agenti Usa senza difensore»
«Viva la giustizia italiana», hanno gridato gli imputati Due condannati per associazione a delinquere
Paolo Biondani
MILANO - Anche i giudici d'appello hanno assolto dall'accusa di terrorismo internazionale i tre maghrebini che furono arrestati nel 2003 con l'accusa di reclutare kamikaze per la guerra in Iraq. Il verdetto di ieri conferma che era giusta la sentenza di primo grado del giudice Clementina Forleo, che il 24 gennaio scorso aveva per la prima volta sancito la necessità di distinguere tra guerriglia e terrorismo applicando il diritto internazionale. Cioè quei principi generali che consentono di condannare solo se è provata «oltre ogni ragionevole dubbio» la pianificazione di «stragi indiscriminate contro la popolazione civile». Una decisione che scatenò l'ira di numerosi parlamentari e ministri del centro-destra.
LA SENTENZA-BIS — La terza corte d'assise d'appello, dopo sei ore di camera di consiglio, ha assolto da tutte le accuse il marocchino Mohammed Daki, che il giudice Forleo aveva invece condannato per ricettazione di passaporti falsi. Gli altri due imputati, i tunisini Alì Toumi e Maher Bouyahia, sono stati di nuovo condannati a tre anni di reclusione solo per falsificazione di passaporti e per associazione per delinquere diretta a favorire l'immigrazione clandestina, ma senza la più grave «finalità di terrorismo internazionale». Secondo autorevoli fonti giudiziarie, la futura motivazione ricalcherà la sentenza Forleo: è dimostrato che Toumi e Bouyahia facevano parte di un'organizzazione che reclutava in Italia integralisti islamici per mandarli a combattere in Iraq con i guerriglieri di «Al Ansar Al Islam»; ma la Procura non è riuscita a fornire prove certe che quei mujaheddin progettassero «attentati contro civili».
IL VERDETTO — I giudici avevano acquisito anche la sentenza del giudice Luigi Cerqua, che aveva motivato le analoghe assoluzioni nel processo Bazar spiegando che la questione di fondo è la mancata legittimazione internazionale della guerra «unilaterale» guidata dagli Stati Uniti: la presenza in Iraq di truppe straniere è coperta dall'ombrello dell'Onu solo «dal 30 giugno 2004», cioè da quando è nato il primo «legittimo governo iracheno». Fino ad allora, gli attacchi a soldati stranieri vanno equiparati ad azioni di «guerriglia», mentre è «terrorismo» solo un attentati contro civili o contro istituzioni di pace «come l'Onu o la Croce rossa». Il problema di partenza è che il nuovo reato introdotto dopo l'11 settembre (articolo 270 bis) non spiega il significato di «terrorismo» e rinvia ai giudici il compito di definirlo. Finora in tutta Italia si contano solo tre condanne, tutte nate da questa stessa inchiesta milanese.
LE REAZIONI — «Allah u-akbar, Dio è grande». «Viva L'Italia, viva la giustizia italiana». Le prime parole che filtrano dall'udienza a porte chiuse sono le urla di gioia di Ali Toumi, che pure resterà in carcere fino al 2006, come Bouyahia, per aver procurato passaporti falsi ai «guerriglieri» di Al Ansar e per aver venduto documenti taroccati ai curdi iracheni arrivati da clandestini in Italia. Daki invece, per i giudici d'appello, è totalmente innocente: la sentenza dice che non ha mai fatto parte neppure dell'associazione semplice, cioè della banda dei falsari. Unico imputato in libertà, Daki commenta con un sorriso liberatorio il verdetto: «Sono innocente, l'ho sempre detto che sono innocente e devo ringraziare il giudice Forleo e questa Corte che finalmente lo ha riconosciuto». Contro Daki pesa un decreto ministeriale di espulsione dall'Italia, che però il suo avvocato Vainer Burani confida di «far revocare dopo questa assoluzione piena», aggiungendo che «comunque è sospeso fino a quando durerà la misura di prevenzione dell'obbligo di firma». Daki ha molta «paura di tornare in Marocco» e il suo avvocato chiederà «asilo politico in Europa, probabilmente in Germania». Mentre aspettava il verdetto, Daki ha confermato che ad Amburgo, dove ha vissuto dal 1989 al 2002, era diventato «amico» di due boss dell'integralismo ora prigionieri degli americani con l'accusa di essere i «cervelli» dell'attacco dell'11 settembre: «Certo, conoscevo Ramzi Binalshibh, ma gli ho solo prestato il mio indirizzo postale per i suoi permessi di soggiorno. E non credo che Hayder Zammar fosse il reclutatore di Mohammed Atta: non era nemmeno salafita, era solo un filosofo...».
ACCUSE — Assolto da tutto, ora è Mohammed Daki a trasformarsi in accusatore: «Il pm Dambruoso mi ha fatto interrogare per due giorni senza avvocato, il 6 e 7 ottobre 2003, da agenti americani che dicevano di essere dell'Fbi. Ma ora penso che ci fosse anche Bob, l'uomo della Cia che ha rapito l'imam di Milano». Il pm Dambruoso, naturalmente, smentisce tutto e annuncia querele.
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STEFANO DAMBRUOSO
«Troppe contraddizioni, ci vogliono giudici specializzati»
Giuseppe Guastella
MILANO — L'assoluzione di Mohammed Daki, in attesa della motivazione della sentenza d'appello, può essere per ora interpretata in due modi: il marocchino è completamente innocente oppure i giudici hanno ritenuto che gli elementi portati dai pubblici ministeri non fossero sufficienti a supportare, fino a una condanna, l'accusa di terrorismo internazionale. Si tratta di una norma che, introdotta di recente nel codice penale con l'articolo 270 bis, secondo taluni è troppo generica e difficile da applicare. Dal Sudamerica, dove è impegnato in un lavoro — ma non vuole precisare di cosa si tratti — legato al suo incarico di esperto giuridico e di terrorismo internazionale presso la rappresentanza italiana alla sede Onu di Vienna, Stefano Dambruoso, il pm milanese che guidò le indagini che portarono all'arresto di Daki, ovviamente non condivide la sentenza.
Perché?
«Chiaramente ogni sentenza va rispettata. Andava rispettata quella del gup Forleo, che riteneva si trattasse di guerriglieri e non di terroristi, così come quella, diametralmente opposta, del gup di Brescia. A fronte degli stessi fatti, quindi, i vari giudici che se ne sono occupati hanno emesso sentenze diverse».
E non va bene?
«Ciò che voglio dire è che si ripropone il problema della trasformazione in verità processuale di fatti che la procura ha ritenuto penalmente rilevanti durante le indagini. Secondo noi si trattava di una cellula del terrorismo islamico che al Nord Italia fabbricava documenti falsi e raccoglieva reclute e fondi da mandare in Iraq per la guerra santa, la jihad. Vicende illecite che i giudici hanno ritenuto indizi gravi ponendole alla base delle ordinanze di custodia cautelare che sono state confermate fino in Cassazione. Quelle vicende non sono state messe in discussione da nessuna delle varie sentenze».
Cosa propone per evitare che sugli stessi fatti ci siano sentenze opposte?
«Per prima cosa, credo sia necessaria l'istituzione, ormai generalmente condivisa, di una procura nazionale antiterrorismo capace di coordinare l'azione di tutte le procure locali impegnate in questo tipo di indagini. Come interlocutore istituzionale di questa procura, molti sostengono la necessità della creazione di un giudice specializzato negli stessi termini. Così si assicurerebbe un'uniformità di sentenze, sia di condanna che di assoluzione».
Parla di giudici speciali?
«La nostra legge non consente giurisdizioni speciali. Ciò nonostante molti studiosi reclamano giudici che abbiamo una specializzazione tecnica in terrorismo internazionale».
Ma non si rischia di avere pesi e misure diverse tra i processi, per così dire normali, e quelli di terrorismo internazionale?
«Mi limito a ricordare che già oggi per gli indagati per terrorismo internazionale vige nel nostro ordinamento la stessa disciplina che vige per i mafiosi. Non si tratta di un doppio piano di valutazione, ma di strumenti diversi per tipologie di reato ritenute dal legislatore particolarmente gravi».
Daki ha ripetuto di essere stato interrogato senza un difensore da agenti americani nel suo ufficio in Procura. Lo stesso avrebbe raccontato un altro imputato.
«In Italia chiunque può esprimere le proprie opinioni. Quindi se Daki vuole può farlo liberamente».
Sta dicendo che non è vero?
«Le ricordo che abbiamo indagato Daki perché colto mentre dava ospitalità a Ciise il somalo su ordine dalla Siria del mullah Fouad. Questi fatti storici, che per la Procura di Milano erano la prova del supporto offerto a pericolosi jihadisti che dall'Italia volevano partire per l'Iraq, sono stati ammessi dallo stesso Daki. Da questi fatti Daki si è difeso avendo a disposizione, fin dal primo minuto della sua detenzione, un difensore e traduttori, peraltro pagati dallo Stato, per assicurargli le garanzie difensive riservate a tutti».
gguastella@corriere.it
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Daki accusa: interrogato anche da americani, Dambruoso smentisce. Frattini: la Ue punisca gli Stati che ospitarono prigioni Cia
Islamici assolti, è polemica
Terrorismo, l´appello dà ragione alla Forleo. Il Polo all´attacco
da Repubblica - 29 novembre 2005
MILANO - Sono stati assolti dall´accusa di terrorismo internazionale i tre islamici già prosciolti in primo grado dal giudice per l´udienza preliminare Clementina Forleo. La terza Corte d´assise d´appello di Milano si è così pronunciata nei confronti del marocchino Mohamed Daki e dei tunisini Maher Bouyahia e Ali Ben Saffi Toumi. Dopo la sentenza, i tre imputati in aula hanno urlato «Allah è grande» e «Viva l´Italia». I giudici hanno assolto Daki da tutti i capi di imputazione, compresi quelli meno gravi, e hanno riconosciuto gli altri due imputati colpevoli dei reati di associazione a delinquere, ricettazione e favoreggiamento dell´immigrazione clandestina, condannandoli a tre anni di reclusione. Daki ha accusato: interrogato anche da americani. Il magistrato Dambruoso smentisce. Il Polo all´attacco. Il commissario Ue Frattini: l´Europa punisca gli Stati che ospitarono prigioni Cia.
COLAPRICO, FAZZO, OPPES, SANSA e TARQUINI
ALLE PAGINE 2, 3 e 4
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"I tre islamici non sono terroristi"
a Milano assoluzione e polemiche
"La Cia ci interrogò dal pm: parlate o finite a Guantanamo"
Smontate le accuse per Mohamed Daki che urla "Allah è grande, viva l´Italia"
Gli altri due condannati solo per documenti falsi. "Messi sotto torchio da Bobby Lai
LUCA FAZZO
MILANO - «Allah è grande». E, subito dopo: «Viva l´Italia». La porta dell´aula della Corte d´assise è sbarrata, ma le grida di Mohamed Daki e dei suoi confratelli rimbalzano fino in corridoio. Sono grida di vittoria, di sollievo, ma anche di rabbia. Il giudice Santo Belfiore ha appena finito di leggere la sentenza che conferma per filo e per segno, e anzi rafforza, il verdetto che undici mesi fa aveva reso celebri in Italia e fuori questi tre giovanotti marocchini: quella con cui il giudice preliminare Clementina Forleo li aveva assolti dall´accusa di terrorismo internazionale, demolendo le accuse raccolte dalla procura della Repubblica. Per quella decisione, la dottoressa Forleo si era trovata al centro di polemiche furibonde. Ma ieri bastano poche ore di camera di consiglio perché anche i giudici d´appello dicano: non sono terroristi. A presiedere la corte è un magistrato lontano dal cliché della toga rossa, Santo Belfiore, settant´anni, siciliano di Fiumefreddo, fama di arcimoderato. Ma ancora più notevole è forse che a firmare l´assoluzione-bis dei tre militanti islamici siano i sei giudici popolari, sei cittadini qualunque chiamati a valutare insieme ai magistrati le prove raccolte dalla Digos milanese.
«Sono contento perché non avevo fatto niente - esulta Mohamed Daki, l´unico che ha atteso la sentenza a piede libero - adesso farò una festa con i miei amici al dormitorio di Reggio Emilia». Ma l´euforia lascia presto il passo alla polemica, è come se l´assoluzione desse il via libera ad accuse che finora i tre inquisiti si erano tenuti dentro. «Adesso possiamo parlare», tuona l´avvocato di Ali Ben Sassi Toumi, che si è visto condannare solo per documenti falsi. E Daki racconta: «Mi vennero a prendere in cella a Como, mi portarono nell´ufficio del pm Stefano Dambruoso. Lì mi hanno mostrato un tesserino dell´Fbi e mi hanno fatto domande, io dicevo quello che sapevo e loro mi dicevano che raccontavo bugie, che sarei finito per vent´anni a Guantanamo. Io chiedevo dov´era mio difensore ma loro mi dicevano che non ce n´era bisogno». Ad interrogarlo, sostiene Daki, c´era anche Bob Lady, il capocentro Cia di Milano, oggi latitante con l´accusa di avere sequestrato un imam estremista, Abu Omar.
Mohamed Daki è un fiume in piena. Anche i suoi coimputati, Maher Bouhaya e Ali Ben Sassi Toumi, che hanno ascoltato la sentenza in gabbia, raccontano attraverso i loro avvocati storie simili: e Toumi, d´altronde, di storie di servizi segreti ne conosce sicuramente, essendo diventato nel frattempo una fonte del Sismi (il che non gli ha impedito di ritrovarsi nel carcere di massima sicurezza di Bad´e Carros). Ma la vera storia di questi tre immigrati ieri resta sullo sfondo, quasi travolta dall´impatto di una assoluzione che forse neppure loro si aspettavano. Cosa faceva Daki in Germania? Lo studente, come dice lui, o il militante di Al Qaeda, legato a Mohamed Atta, il capo dell´11 settembre, e a Ramzi Binalshib, il ventesimo uomo del commando, quello che non riuscì a imbarcarsi per l´America? E di cosa parlavano Daki e i suoi amici nelle intercettazioni, di missioni suicide o di faccende innocue stravolte dalla traduzione?
È su questo che si sono scontrati accusa e difesa, è su questo che le motivazioni della sentenza - che verranno depositate tra tre mesi - andranno lette con attenzione. Non è affatto scontato che la Corte d´assise abbia assolto i tre imputati per lo stesso motivo per cui li assolse la Forleo, quando sostenne che partecipare a una guerra di guerriglia non significa essere terroristi. È possibile che Belfiore e i suoi giurati si siano fermati un passo indietro, che abbiano ritenuto inconsistenti le prove, inammissibili gli indizi. Ma sempre di assoluzione si tratta. Come dice Gabriele Leccisi, uno degli avvocati: «I signori del governo che avevano attaccato brutalmente un esponente della magistratura italiana sono stati finalmente serviti».
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Il coordinatore di Forza Italia, Sandro Bondi: "Decisione che sconcerta". Cautela nel centrosinistra
Contro i magistrati l´ira del Polo
La Lega: "Processo da rifare, ma non a Milano"
Fistarol (Margherita): "Sentenza da rispettare ma riflettiamo su come combattere il terrore"
MILANO - «Il rito Ambrosiano ha colpito ancora. Via il processo da Milano». Non usa mezzi termini il leghista Roberto Calderoli. E attacca la sentenza della Corte d´Appello: «Sono sconcertato dall´esito del processo che ha assolto i tre imputati. Le motivazioni presentate dall´accusa - aggiunge il ministro per le Riforme - risultavano estremamente precise e fondate. Ora non resta che attendere il ricorso in Cassazione, che mi auguro la Procura vorrà presentare immediatamente per trasferire il processo in una città diversa da Milano».
Quello di Calderoli è solo il primo di una lunga serie di commenti. Duro anche Guido Rossi, vicepresidente della Lega Nord a Montecitorio: «Questa sentenza mi fa pensare che, nonostante l´esistenza di strumenti legislativi adeguati, siamo di fronte ad un´anarchia giudiziaria che stronca sul nascere ogni tentativo di dare risposte repressive e preventive al terrorismo islamico», commenta l´esponente leghista. Ma tutto il centrodestra attacca la decisione dei magistrati milanesi: «Desta sconcerto e preoccupazione», così Sandro Bondi, coordinatore di Forza Italia. «È mai possibile - aggiunge Bondi - che indagini accurate e approfondite debbano essere nullificate da sentenze che fanno sparire il reato di terrorismo? C´è un interesse superiore del nostro Paese, della sua sicurezza e dell´incolumità dei cittadini - conclude Bondi - che dovrebbe indurre a una comprensione e a una collaborazione tra i diversi poteri dello Stato».
Cauto il commento di Maurizio Fistarol, responsabile della Sicurezza della Margherita: «Le sentenze della magistratura vanno rispettate. Senza entrare, tuttavia, nel merito della decisione milanese, è venuto il momento di chiederci quali siano oggi gli strumenti di diritto a nostra disposizione in ambito nazionale e internazionale per contrastare il terrorismo. È perfettamente inutile che adesso la Lega chiami in causa la magistratura. Chi protesta per la sentenza di oggi si ponga, piuttosto, la questione di che cosa abbia fatto in tutti questi anni per approvare misure rigorose e severe in Italia e in Europa contro il terrorismo internazionale».
Reazioni, però, anche alle dichiarazioni di Mohamed Daki che ha raccontato di essere stato interrogato da agenti americani negli uffici della Procura di Milano. Senza difensore. E subendo minacce. Tutto alla presenza di un pm italiano. «Quanto è accaduto è molto grave: una conferma della violazione della sovranità territoriale. È uno scandalo che agenti americani possano intervenire così nelle nostre indagini», attacca il verde Paolo Cento. E Niccolò Ghedini di Forza Italia: «È un episodio che va approfondito. Bisogna chiarire se c´erano i presupposti per un interrogatorio senza avvocato e se c´era un accordo perché l´esame fosse condotto da agenti stranieri».
(f. sa.)
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L´INTERVISTA
Parla Clementina Forleo che in gennaio mandò assolti i tre subendo critiche e attacchi
La rivincita della prima giudice "Un anno di insulti e minacce"
"Non ne faccio una questione personale, questa è una vittoria dello stato di diritto"
FERRUCCIO SANSA
MILANO - «Assolti?». Sì, signor giudice, niente terrorismo internazionale, solo condanne minori. «Ma siete proprio sicuri?», chiede Clementina Forleo. Certo, la Corte d´Appello ha confermato la sua sentenza di primo grado. «Sono felice, tanto felice», e la voce di Clementina per la prima volta, per una frazione di secondo si incrina. Per tutto il pomeriggio ha atteso l´esito della sentenza e adesso parla fitto fitto, come se avesse aspettato dodici mesi per lasciarsi andare. È commossa, sì. «È stato un anno terribile. Calunnie, menzogne, minacce. Ce l´ho messa tutta per tenere duro. Ci sono voluti nervi saldi. Sia chiaro, però, che io non ne faccio una questione personale: questa è una vittoria per lo Stato di diritto. Con questa decisione si dimostra che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge».
Davvero non è felice anche un po´ per se stessa?
«Ecco, sì, sono contenta perché questa decisione conferma quello che avevo scritto nella mia sentenza. Io ho fatto solo il mio lavoro, ho deciso quello che in cuor mio ritenevo giusto. Ma per questo ho subìto attacchi terribili».
Che cosa intende?
«Di tutto, questo è stato l´anno più difficile della mia vita».
Minacce?
«Centinaia di messaggi. Provate a immaginare che cosa significhi accendere il computer la mattina e trovare mail che ti coprono di insulti. Che ti minacciano di morte. Poi lettere infilate nella mia cassetta da gente che sapeva dove abitavo. E telefonate. Alla fine mi hanno offerto la scorta».
Ma lei l´ha rifiutata?
«Sì. Era una questione di coerenza: non potevo accettare la protezione quando a espormi al pericolo erano state proprio le dichiarazioni e gli attacchi violenti di alcuni esponenti delle istituzioni».
Da chi sono arrivati gli attacchi più duri?
«Perfino da ministri».
Il ministro Castelli?
«Lui mi ha mandato gli ispettori a palazzo di Giustizia».
Anche Gasparri e altri ministri non sono stati teneri con il gip Forleo. Lei li ha citati in giudizio?
«Sì, ministri e parlamentari. Avevano fatto affermazioni offensive per me e soprattutto per la funzione che esercito: una sentenza di un giudice dello Stato non può essere attaccata da chi dovrebbe conoscere la legge. Ma c´è anche chi, pur di cavalcare la tigre dell´opinione pubblica, è stato disposto a calunnie. Menzogne. Adesso la questione è in mano al mio avvocato Giulia Bongiorno».
Quali sono stati i momenti più difficili?
«Un venerdì mattina. Ero nel mio ufficio e ho sentito bussare alla porta. Erano gli ispettori mandati dal ministro Castelli. A loro ho dovuto spiegare tutti i motivi che mi avevano portato a decidere. Come se l´accusato, alla fine, fosse il giudice».
In molti, però, l´hanno difesa.
«Veramente dall´opposizione ho sentito molto silenzio. Io ho avvertito soprattutto l´appoggio dei colleghi, anche di quelli che non erano d´accordo con la mia decisione. Perché la questione è un´altra: i giudici non devono essere "processati" per quello che decidono. Ma ci sono stati anche esperti di diritto internazionale, che senza conoscermi mi hanno dato ragione». Forleo si ferma un attimo, la voce diventa più sottile: «Poi c´è il mio compagno. E i miei genitori».
Ma quella distinzione tra guerriglieri e terroristi. Ne è sempre convinta?
«Certo, è un discorso complesso: si parlava di atti compiuti in Iraq, durante il periodo bellico. E di azioni ai danni di militari, non di civili».
Un discorso delicato di questi tempi, non trova?
«Sapevo che sarei andata incontro a polemiche, ma pensavo che quella fosse la decisione giusta».
Ma perché si sono scagliati tanto violentemente contro di lei?
«Forse anche perché sono una donna. Altrimenti perché i miei colleghi uomini che hanno preso decisioni simili non hanno subìto lo stesso trattamento?».
Ha avuto le sue rivincite.
«Oggi sono ancora più felice di aver fatto il magistrato».
www.dsonline.it
Associazione Nazionale Magistrati

Il progetto di revisione della seconda parte della Costituzione
L'incidenza delle modifiche costituzionali sui diritti dei cittadini, sull'assetto della giustizia costituzionale e sul sistema di governo autonomo della magistratura.
Sommario
1. Premessa.
2. L'intervento sul Consiglio Superiore della magistratura.
3. Il ruolo della Corte costituzionale nel sistema vigente e nel progetto di revisione costituzionale.
4. La modifica del Titolo V della seconda parte della Costituzione (Le Regioni, Le Province, I Comuni) e la tutela giurisdizionale dei diritti sociali.
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1. Premessa.
L'associazione nazionale magistrati ha ritenuto necessario svolgere una propria riflessione sulla proposta di revisione costituzionale che giunge all'esame del parlamento per la seconda deliberazione prevista dall'art. 138 Cost., al fine di valutare l'incidenza delle modifiche costituzionali proposte sull'assetto della giurisdizione ordinaria e costituzionale, sul sistema del governo autonomo della magistratura e sulla tutela di fondamentali diritti sociali.
Il presente documento - elaborato da un gruppo di lavoro composto da Marcello Basilico, Bruno Di Marco, Nello Rossi, Giuseppe Santalucia - riguarda perciò solo gli aspetti della progettata riforma costituzionale che incidono direttamente o indirettamente sul giudiziario e sulla giurisdizione.
2. L'intervento sul Consiglio Superiore della magistratura.
Il disegno di riforma della Parte II della Costituzione contiene una specifica ma non marginale modificazione dell'attuale assetto del Consiglio superiore della magistratura.
L'art. 26 del disegno di legge costituzionale riscrive l'art. 87 della Costituzione sulle funzioni del Presidente della Repubblica e conferma che questi presiede il Consiglio superiore della magistratura, ma aggiunge, innovando rispetto all'attuale disciplina, che provvede anche alla nomina del vice presidente dell'organo, scegliendolo nell'ambito dei componenti eletti dalle Camere.
L'art. 36 del disegno di legge prevede poi, in coerenza con la modificazione appena illustrata, l'abrogazione dell'attuale quinto comma dell'art. 104 cost., ove si dispone che il vice presidente è eletto dal Consiglio fra i componenti designati dal Parlamento.
Il ridimensionamento dei poteri del Consiglio è il dato che con evidenza emerge ad una prima lettura del progetto riformatore.
2.1. Nel sistema attuale l'attribuzione della presidenza del Consiglio superiore della magistratura al Capo dello Stato segna il punto di equilibrio tra due esigenze in qualche modo contrapposte: da un lato, quella di impedire pericolose interferenze del potere esecutivo nella vita dell'organo di autogoverno e, dall'altro, quella di evitare chiusure corporative dell'ordine giudiziario.
Alla soluzione accolta in Costituzione si giunse per via di una mediazione tra proposte divergenti, l'una che mirava ad attribuire la presidenza del CSM al Ministro della giustizia, l'altra che invece riteneva più opportuno, in nome dell'autonomia del Consiglio superiore, che esso fosse presieduto da un magistrato, e specificamente dal primo presidente della Corte di cassazione.
I pericoli, a cui sia l'una che l'altra delle proposte poi scartate avrebbero esposto la complessa architettura istituzionale, fecero propendere per l'attribuzione della presidenza al Capo dello Stato in quanto massimo organo di garanzia, espressione di un potere neutro.
Non furono però del tutto accantonate le due proposte radicali, che ebbero in qualche modo un riconoscimento, sia con la previsione della partecipazione, quale membro di diritto, del primo presidente della Corte di cassazione, sia con l'attribuzione di competenze costituzionali concorrenti in materia di amministrazione della giustizia, o meglio dei servizi, al Ministro della giustizia.
La soluzione adottata in Costituzione ha avuto il pregio di garantire il più alto grado di autonomia dell'organo consiliare mantenendo nel contempo aperto il suo collegamento con l'esterno.
Le prerogative costituzionali del Csm ricevono tutela dalla presidenza del Capo dello Stato, che se ne fa garante non solo nei rapporti con gli altri poteri dello Stato, ma anche nei rapporti con l'ordine giudiziario, onde evitare influenze che ne possano compromettere l'imparzialità di azione (Corte cost., sent. n. 148 del 1983). Ed al contempo la presidenza del Capo dello Stato è di ostacolo a tentativi dello stesso Csm di interpretare la politicità della sua funzione in termini di legittimazione a prendere posizione nelle relazioni conflittuali tra le parti politiche.
Ma, affinché tale tutela ( che proviene dall'esterno del Consiglio ) non si risolva in una perdita di autonomia dell'organo collegiale, sono stati predisposti opportuni meccanismi antagonisti.
In questo contesto deve essere letta la previsione dell'elezione del vice presidente da parte dell'assemblea consiliare, efficace contrappeso alla obbligata individuazione del vice presidente all'interno della componente cd. laica, quindi estranea all'ordine giudiziario.
La previsione di una vicepresidenza eletta dall'assemblea completa i contenuti di garanzia della presidenza del Capo dello Stato, perché attraverso essa si ha piena e chiara attestazione del massimo grado possibile di autonomia funzionale, in modo che non risulti in concreto un'eccessiva supremazia del capo dello Stato sul Csm.
2.2. Il fatto che la norma costituzionale sia frutto di una complessa mediazione rende chiaro che dalla sua modifica può derivare una significativa alterazione dell'equilibrio a suo tempo realizzato.
Che poi la progettata modifica intenda comprimere l'autonomia del Csm è affermazione ancor più plausibile se solo si considera (pur senza trascurare l'intenso contenuto di garanzia dell'attribuzione della presidenza del Csm al Capo dello Stato) che già l'assetto attuale rappresenta un'anomalia rispetto all'ordinaria regola che vuole che la presidenza di un organo collegiale, peraltro di spiccata autonomia, sia espressa dall'interno dell'organo stesso.
È stato scritto che la presidenza del Capo dello Stato ha una <> perché da essa promana un duplice rapporto con l'organo consiliare, ora di pura e semplice rappresentanza, ora di separatezza ed alterità. Il Capo dello Stato, nell'esercizio delle sue attribuzioni, ora agisce come presidente dell'organo, ora come soggetto distinto ed altro, a conferma dell'effettività del principio fondamentale per il quale l'unità dell'ordinamento è realizzata dalla partecipazione del Presidente della Repubblica ad ogni potere dello Stato, sia pure in modo non <> (G. U. Rescigno).
Con questa premessa sulla rilevante dimensione politica del ruolo del Capo dello Stato si giustifica la conclusione che la Costituzione, con la scelta sulla presidenza del Csm, <>. (ancora G. U. Rescigno).
Nel vigente sistema costituzionale l'elezione del vicepresidente da parte dell'assemblea plenaria del Csm significa l'instaurazione, anche se in modo implicito, di un rapporto fiduciario con un organo vicario, che non esaurisce i suoi compiti all'interno dei confini di un'ordinaria supplenza del presidente. Si deve infatti tener presente che per costante prassi costituzionale (in qualche modo necessitata dall'ampiezza dei poteri e dei compiti del Capo dello Stato) il vice presidente assume ordinariamente i compiti di presidenza dell'organo, a prescindere da fatti occasionali e temporanei di impedimento o di assenza.
Il vice presidente, ancora, compone, unitamente ai membri di diritto del Csm e non come delegato del Capo dello Stato ma iure proprio, il Comitato di presidenza, che è titolare di importanti poteri di promozione e di esecuzione dell'attività del Csm stesso.
Il Comitato di presidenza è sì previsto e disciplinato da una legge ordinaria - la legge istitutiva del Csm - ma non va dimenticato il ricco dibattito sulla sua costituzionalità e sulla opportunità che la sua presidenza fosse attribuita al Capo dello Stato, in ragione della rilevanza, addirittura decisiva, delle sue deliberazioni (Santosuosso).
L'iniziativa della revisione costituzionale vuole allora spezzare il collegamento fiduciario del vice presidente con l'assemblea, irrobustendone di contro il legame con il Presidente della Repubblica, che si esprime ordinariamente, in termini di fisiologica intensità, con il conferimento della delega per l'esercizio stabile e continuativo di alcune funzioni.
Alla compressione dell'autonomia del Csm si accompagna, nel disegno di revisione, lo svilimento della figura del vice presidente, che, allontanato dall'assemblea plenaria, è destinato a veder limitato il suo ruolo all'interno del rapporto di delega con il Capo dello Stato, a vedere dunque potenziati i compiti di esercizio di un potere altrui, con inevitabile depauperamento del ruolo di mediazione e moderazione autorevole del dialogo, ed a volte dello scontro, tra le componenti del Csm.
Ruolo questo che non si addice al Capo dello Stato, per la neutralità che ne connota la funzione, e di cui però si avverte la necessità per un'ordinata vita del dibattito consiliare e per preservare integre le attribuzioni del presidente della Repubblica quale organo esterno al Csm.
Soltanto l'instaurazione di un rapporto fiduciario, attraverso il meccanismo di designazione elettorale, può dare legittimazione all'esercizio di un così difficile compito.
Non va poi trascurato che il rafforzamento del ruolo del presidente della Repubblica in relazione di alterità rispetto al Csm va di pari passo con l'indebolimento da tutti denunciato del ruolo del presidente nei confronti del Governo.
A fronte di una consistente erosione di poteri e funzioni presidenziali in nome di un premierato che mette duramente alla prova la tenuta stessa del concetto di costituzionalismo, nei rapporti con il Csm, e per esso con la Magistratura, il Capo dello Stato vede affermata una posizione di prevalenza che per l'autonomia e l'indipendenza costituisce non tanto uno strumento di salvaguardia ma un fattore di rischio.
Come è stato osservato (Carlassare), il mantenimento, dopo il quarto scrutinio, del criterio della maggioranza assoluta per l'elezione del Capo dello Stato è un dato di destabilizzazione in un contesto politico - elettorale incentrato sul sistema maggioritario senza che si sia posto mano ad una seria revisione del sistema per l'individuazione di limiti e freni allo strapotere della maggioranza.
In questo scenario non si può ragionevolmente contare sull'elezione di un Capo dello Stato veramente indipendente dalla maggioranza di governo, e si fa pressante il pericolo che veda scolorire la neutralità della funzione e non sia più nelle condizioni politiche per esprimere, nella concretezza della vita istituzionale, il sapiente raccordo, a fini di garanzia dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura, tra la dimensione di componente interno al Csm e di organo esterno ad esso.
Di tanto, il progetto di attribuirgli la designazione del vice presidente è più che un serio allarme.
3. Il ruolo della Corte costituzionale nel sistema vigente e nel progetto di revisione costituzionale.
Nel marzo del 1960, nell'ambito di un giudizio per conflitto di attribuzioni sollevato dalla Regione Siciliana circa la soppressione da parte dello Stato dei servizi ferroviari sulla linea Agrigento-Licata, la Corte costituzionale affrontò ex professo la questione del suo ruolo e della sua collocazione nell'ambito dell'ordinamento (sent. n. 13/1960).
In quella occasione la Corte affermò che essa "esercita essenzialmente una funzione di controllo costituzionale, di suprema garanzia della osservanza della Costituzione della Repubblica da parte degli organi costituzionali dello Stato e di quelli delle Regioni"; sicché la sua decisione, "concernendo la norma in sé, concorre non tanto alla interpretazione ed alla attuazione, quanto all'accertamento della validità delle norme dell'ordinamento", cui è connessa la efficacia erga omnes della eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale.
Sulla base di tali considerazioni la Corte negò di poter "essere inclusa fra gli organi giudiziari, ordinari o speciali che siano" in ragione delle profonde differenze tra il compito affidatole (senza precedenti nell'ordinamento italiano) e quelli ben noti e storicamente consolidati propri degli organi giurisdizionali.
Tornando sull'argomento nella sentenza n. 65 del 1965, la Corte - nell'affermare che la gratuità del giudizio costituzionale è principio connaturato al sistema della giustizia costituzionale - ribadì che l'interesse tutelato dalla giurisdizione costituzionale è quello "obiettivo" e "generale" di eliminare dall'ordinamento atti contrari a norme costituzionali (di modo che "il giudizio di legittimità costituzionale, pur ammettendo la partecipazione di parti private, si svolge al di sopra dei loro interessi, non consente ostacoli, anche lievi o indiretti, al proprio svolgimento", gli è "naturalmente estraneo ogni concetto di soccombenza" e non tollera che siano colpiti da remore o oneri pecuniari "proprio coloro che collaborano a tale funzione" di difesa dell'ordinamento costituzionale).
In altri termini la Corte, nei rapporti con gli altri poteri costituzionali, si pone quale organo costituzionale (non il solo) al quale è affidata la funzione suprema di difesa della legalità costituzionale, o meglio, dell'ordinamento costituzionale.
3.1. La funzione di difesa dell'ordinamento costituzionale svolta dalla Corte costituzionale è stata ulteriormente sottolineata e valorizzata dalla giurisprudenza costituzionale sui principi supremi dell'ordinamento costituzionale.
Non è questa la sede per percorrere lo sviluppo delle numerosissime decisioni con le quali la Corte ha, di volta in volta, riconosciuto un principio supremo, descrivendone al contempo il contenuto essenziale caratterizzante (solo a titolo esemplificativo v. sent. nn. 98 del 1965, 30-31-32 del 1971, 12 del 1972, 175 del 1973, 183 del 1973, 1 del 1977, 18 del 1982, 232 del 1989, 170 del 1984, 168 del 1991, ordinanza n. 536 del 1995); è utile, invece, soffermarsi sulle conseguenze che la Corte ha tratto dalla ritenuta sussistenza dei principi supremi dell'ordinamento costituzionale.
In primo luogo la Corte ha riservato ai principi supremi "una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale", ritenendo sindacabili, ad esempio, sotto questo profilo, sia le disposizioni del Concordato, le quali godono della particolare "copertura costituzionale" apprestata dall'art. 7 Cost., sia la legge di esecuzione del Trattato della CEE.
In secondo luogo - in occasione di un giudizio incidentale di legittimità costituzionale riguardante lo Statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige - la Corte non solo ha ribadito la superiorità e, quindi, la prevalenza dei principi supremi sulle leggi di revisione costituzionale e sulle altre leggi costituzionali ma ha anche indicato i rimedi contro la sua eventuale violazione.
Con la sentenza n. 1146 del 1988, rigettando l'eccezione di insindacabilità delle disposizioni aventi valore di legge costituzionale, quanto meno per vizi sostanziali, sollevata dall'Avvocatura generale dello Stato, la Corte ha stabilito che i principi supremi " non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali"; ha precisato che hanno natura di principi supremi "tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione Italiana"; ha conseguentemente asserito che è la Corte "competente a giudicare sulla conformità delle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali anche nei confronti dei principi supremi dell'ordinamento dello Stato, giacché, "se così non fosse.si perverrebbe all'assurdo di considerare il sistema di garanzie giurisdizionali della Costituzione come difettoso o non effettivo proprio in relazione alle sue norme di più elevato valore".
3.2. La giustizia costituzionale italiana, grazie alla Corte costituzionale, si è in tal modo insediata a pieno titolo nell'alveo del costituzionalismo moderno, tipico degli Stati costituzionali di democrazia pluralistica e caratterizzato dal principio basilare della limitazione del potere, per la realizzazione del quale, nell'antitesi "fra potere e razionalità della legge", la giustizia costituzionale costituisce, per l'appunto, uno degli strumenti più efficaci, essendo preposta a svolgere la funzione "di custode ed interprete dei limiti giuridici posti dalla Costituzione".
Dalla celebre sentenza Marbury versus Madison del 1803, con la quale la Corte Suprema degli Stati Uniti, sviluppando peraltro quanto già asserito dal Federalist n. 78, affermò il principio della costituzione come legge suprema, la negazione del quale ". sovvertirebbe il vero fondamento di tutte le costituzioni scritte" e "darebbe in pratica al legislatore una vera e propria onnipotenza"; attraverso Kelsen, il quale osservava che "una costituzione cui manchi la garanzia dell'annullamento degli atti incostituzionali non è, in senso tecnico, completamente obbligatoria", ad oggi, la storia del costituzionalismo moderno ed i compiti della giustizia costituzionale affidati alle Corti costituzionali ruotano attorno ad un filo conduttore comune, quello, come si esprime P. Haberle "di arginare e controllare il potere allo stesso modo in cui anche la Costituzione intera rappresenta un limite al potere".
Sicché, come ha incisivamente osservato L. Elia, ricordando il pensiero espresso nel 1945 dall'illustre costituente Egidio Tosato, e richiamando altresì una famosa decisione della Corte costituzionale francese del 23 agosto 1985, la giustizia costituzionale costituisce "vero e proprio remedium omnipotentiae e delle tentazioni di onnipotenza" e "la loi votée n'exprime la volonté générale que dans le respect de la Constitution".
Il che corrisponde all'orientamento della Corte costituzionale seguito con la citata sentenza n. 1146, dalla quale promana il dato positivo, e non più solo teorico, che la Corte, lungi dal rivendicare una posizione di superiorità rispetto al legislatore, si configura essa stessa, rinvenendo in ciò la propria legittimazione, come strumento della Costituzione, la quale se ne serve per riaffermare la primazia del potere costituente sul potere derivato del legislatore.
Dunque, nelle moderne democrazie pluralistiche, come bene è stato sottolineato in dottrina (G. Azzariti), "le Corti costituzionali si propongono e si affermano come garanti dell'unità dell'ordinamento costituzionale.. : della unitaria ed unica legalità costituzionale".
Di qui il difficile compito della Corte di preservare - attraverso una complessa e sapiente opera di bilanciamento di principi e valori - la "unitaria ed unica legalità costituzionale" dal rischio di derive disgregatrici. Di qui, e a maggior ragione, la suprema esigenza di salvaguardare, anzi rafforzare, quale irrinunciabile fattore di integrazione e di equilibrio, l'estraneità e l'indipendenza della Corte costituzionale, quale custode del pactum societatis, dalle logiche della conflittualità politica, e dal senso di appartenenza e di schieramento tipici di questa.
3..3. La Corte costituzionale, grazie alla sua attuale composizione paritaria fra il numero dei giudici nominati dal Presidente della Repubblica, il numero dei giudici nominati dal Parlamento in seduta comune e quello nominato dalle supreme magistrature ordinarie e amministrative, ha saputo garantire, non senza ricorrenti difficoltà, ma con saggezza ed autorevolezza un equilibrio fra "ragioni alte" della politica e "ragioni alte" della giurisdizione costituzionale, consentendo alla sua giurisprudenza di assurgere nello scenario europeo e mondiale a "punto di riferimento per tutte le riflessioni di giustizia costituzionale".
Il recente di progetto di revisione costituzionale approvato in Parlamento in prima lettura, apparentemente tocca solo marginalmente la Corte costituzionale; in realtà introduce innovazioni che potrebbero incidere, alterandoli profondamente, sulla sua natura e sul suo funzionamento.
Il nuovo art. 135, invero, aumenta da cinque a sette il numero dei giudici nominati dal Parlamento, dei quali tre vengono eletti dalla Camera e quattro dal Senato (viene soppressa l'esigenza della seduta comune del Parlamento); parallelamente riduce a quattro sia il numero dei giudici nominati dal Presidente della Repubblica, sia quello eletto dalle supreme magistrature.
Contemporaneamente, con il nuovo testo dell'art. 128 si amplia enormemente la competenza della Corte, aprendo la strada al contenzioso delle autonomie locali (Province, Comuni e città metropolitane).
Si immettono, così, nel circuito della giustizia costituzionale oltre ottomila nuovi soggetti che verrebbero ad incrementare in modo vertiginoso il cospicuo contenzioso di cui la Corte già oggi è chiamata ad occuparsi con riguardo alle sole Regioni.
Se si ha presente che tali modifiche si inseriscono nel contesto di una democrazia maggioritaria (e che il connotato maggioritario del sistema elettorale non verrebbe alterato dalla legge elettorale in corso di approvazione che prevede un premio di maggioranza per la coalizione vincente) si deve constatare che le modifiche proposte potrebbero avere ripercussioni molto profonde sull'assetto della Corte.
Con l'aumento della componente eletta dal Parlamento si accentua seriamente il rischio che la Corte, come qualsiasi altro organo di garanzia, diventi Corte della maggioranza politica del momento.
Ad avvalorare questa prospettiva concorre altresì il mutamento del ruolo del Presidente della Repubblica, il quale, alla luce del novellato art. 83, potrebbe non configurarsi più come l'espressione della maggioranza delle forze politiche rappresentate in Parlamento, bensì, assai più riduttivamente (per effetto del principio maggioritario che caratterizza il sistema elettorale), anch'esso organo della maggioranza politica del momento (dopo il quinto scrutinio è sufficiente per la sua elezione la maggioranza assoluta dei componenti l'Assemblea della Repubblica), perdendo così il connotato istituzionale di garanzia e di neutralità.
Le nomine dei quattro giudici costituzionali riservate al Presidente della Repubblica, di conseguenza, non si sottrarrebbero al timore di essere il frutto di scelte operate in prevalente, se non esclusivo, gradimento della maggioranza.
Sulla estensione delle competenze della Corte al contenzioso delle autonomie locali è sufficiente ricordare, poi, quanto ebbe ad osservare nel 1997 l'allora Presidente della Corte costituzionale Granata in relazione ad analoga innovazione contenuta nel progetto proposto dalla Commissione bicamerale: "la sopravvenienza alluvionale di controversie che con le nuove competenze - è prevedibile, anzi certo - si scaricherebbe sulla Corte, con un devastante moltiplicatore complessivo di dimensioni praticamente incalcolabili".
Ora, come è noto, il sistema di nomina delineato dall'art. 135 Cost. (nel testo vigente) è il risultato di un equilibrio delicato, diretto ad armonizzare fra loro esigenze diverse: assicurare l'imparzialità e l'indipendenza dei giudici; garantire un livello di competenza tecnico-giuridica di eccellenza; portare nella Corte esperienze, culture e sensibilità diverse, in sintonia con quelle presenti nelle istituzioni politiche e nella società civile.
E fino ad oggi, come si è osservato, tale fragilissimo equilibrio la Corte ha saputo efficacemente assicurare.
Per contro, il numero preponderante dei giudici costituzionali di nomina parlamentare, non più eletti in seduta comune, e la possibile perdita del ruolo di garanzia e di neutralità del Capo dello Stato, potrebbero coinvolgere la Corte nella conflittualità politica, con l'effetto di ridurre la sua credibilità e di sminuire il suo irrinunciabile ruolo di garanzia.
Il contenzioso delle autonomie locali, a sua volta, aggiungendosi al già "preoccupante" livello del contenzioso delle Regioni (v. Camera dei deputati, rapporto 2004-2005 sullo stato della legislazione, 11 luglio 2005), non solo alimenterebbe il rischio della deriva politica della Corte, soffocata dalla risoluzione di innumerevoli questioni di scarso rilievo, ma, per il suo carattere invasivo, finirebbe per intasare e paralizzare la stessa efficienza qualitativa e quantitativa della Corte, minando irreparabilmente la centralità del giudizio incidentale (quello, per intenderci, che riguarda la tutela dei diritti e della legalità costituzionale).
Senza escludere che un ulteriore, complicatissimo contenzioso "politico" potrebbe scaturire dal controverso, farraginoso e, per molti aspetti, scarsamente comprensibile art. 70 del progetto di revisione, disciplinante il rapporto fra Camera e Senato nel procedimento di formazione delle leggi.
I rischi di alterazione del ruolo di garanzia della Corte, a loro volta, finirebbero inevitabilmente per scaricarsi, sia pure indirettamente, anche sulla Prima parte della Costituzione, formalmente rimasta invariata.
Una Corte costituzionale, non più "guardiana imparziale ed indipendente della legalità costituzionale", non sarebbe, infatti, in grado di assicurare effettivamente la tutela dei diritti inviolabili dell'uomo e dei principi supremi, primi fra tutti quelli dell'uguaglianza e della tutela giurisdizionale.
E', perciò, auspicabile che la Corte attuale, mantenendo fede alla propria giurisprudenza, continui a ritenersi "competente a giudicare sulla conformità delle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali anche nei confronti dei principi supremi dell'ordinamento dello Stato" e continui ad esercitare tale irrinunciabile controllo per assicurare l'effettività del sistema delle garanzie giurisdizionali della Costituzione in relazione alle sue norme di più elevato valore.
Il sistema degli equilibri e delle garanzie costituzionali costituisce un patrimonio prezioso ed inestimabile, la cui compromissione equivarrebbe a cancellare due secoli di costituzionalismo.
4. La modifica del Titolo V della seconda parte della Costituzione (Le Regioni, Le Province, I Comuni) e la tutela giurisdizionale dei diritti sociali.
Nel dibattito pubblico che si è sviluppato sul progetto di riforma del titolo V della seconda parte della Costituzione (Le Regioni, Le Province, I Comuni) vi sono state differenti valutazioni tanto sulla incisività ed efficacia delle soluzioni istituzionali contenute nelle nuove norme quanto sul rapporto (di sostanziale continuità o di rottura) che intercorre tra il disegno riformatore proposto dalla attuale maggioranza e la revisione costituzionale attuata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.
Senza entrare nel merito di tali differenti valutazioni basterà qui ricordare che alla legge costituzionale n. 3 del 2001 sono riconducibili l'equiparazione di Stato e Regioni nella "potestà legislativa", l'attribuzione alla potestà legislativa regionale di un contenuto ampio e residuale rispetto all'intervento statale in via esclusiva od a quello di legislazione concorrente e l'introduzione del potere sostitutivo del Governo per la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. In altri termini é a questa riforma che si deve il ribaltamento di prospettiva, costituito dall'attribuzione del potere legislativo per materia allo Stato anziché alle Regioni.
La riforma costituzionale che giunge ora al "secondo" esame del parlamento prevede nuove consistenti modifiche del Titolo V tra cui vanno sottolineate : a) la cancellazione del riferimento ai "vincoli derivanti ..dagli obblighi internazionali" come limite all'esercizio della potestà legislativa di Stato e Regioni (art. 117, primo comma, Cost.); b) l'elencazione di materie nelle quali le Regioni hanno potestà legislativa esclusiva (art. 117, terzo comma, Cost.); c) l'espressa menzione nel testo costituzionale della Conferenza Stato-Regioni operante " per realizzare la leale collaborazione e per promuovere accordi ed intese" (art. 118, terzo comma Cost.); d) l'introduzione della procedura di annullamento di leggi regionali ritenute pregiudizievoli per l'interesse nazionale (art. 127, commi secondo e terzo Cost.).
A fronte di tale ridefinizione del rapporto tra potestà legislativa dello Stato e delle Regioni, occorre chiedersi se le modifiche al testo costituzionale incideranno ed in che termini su alcuni fondamentali diritti sociali e sulla loro tutela giurisdizionale.
Particolare rilievo ai fini che qui interessano assume l'attribuzione alle Regioni della potestà legislativa "esclusiva" nelle materie indicate nell'art. 117 quarto comma, lett. a), b), c) e d) (assistenza ed organizzazione sanitaria, organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, definizione dei programmi scolastici e formativi di interesse regionale, polizia amministrativa regionale e locale) cui fa seguito il riconoscimento della potestà legislativa esclusiva regionale in "ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato" (lett. e) ).
Qui sta il nocciolo duro della devolution italiana. Gli esiti ed i possibili sviluppi di questa peculiare devoluzione e le ricadute delle nuove competenze esclusive sulla "effettività" della tutela di diritti sociali sono oggettivamente assai incerti.
C'è una prima alternativa possibile, la meno grave ed allarmante: che la peculiare "devoluzione" italiana significhi "solo" che nelle materie di competenza esclusiva, le Regioni saranno esenti dai vincoli dei principi fondamentali della materia ma continueranno ad essere sottoposte non solo ai vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario ma anche del rispetto della Costituzione.
Rispetto della Costituzione che a sua volta implica tanto la conformità alla prima parte della Costituzione, contenente i principi generali, quanto l'osservanza delle competenze legislative esclusive dello Stato in una serie di ambiti quali la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili o la statuizione di norme generali sulla tutela della salute.
Ma c'è anche un'altra alternativa molto concreta e molto più preoccupante: che la competenza legislativa esclusiva attribuita alle Regioni in materia di "assistenza e organizzazione sanitaria" e di "organizzazione scolastica e formazione" venga interpretata ed attuata - sotto la spinta di fattori economici e di volontà politiche - come una realtà del tutto nuova e diversa rispetto alle altre competenze regionali (la competenza legislativa concorrente e la competenza legislativa residuale delle Regioni) ed autorizzi tanto la frantumazione dei sistemi sanitari e scolastici quanto forti differenziazioni di prestazioni nelle diverse regioni, nella indifferenza e nell'incuranza dei limiti istituzionali e costituzionali.
Con il possibile corollario di diversi regimi di accesso alle prestazioni sanitarie o agli istituti scolastici per i residenti ed i non residenti in una determinata Regione, e con un corredo di preclusioni, di ostacoli, di discriminazioni del tutto ignote nell'ordinamento attuale.
In quest'ultimo caso ci si troverebbe di fronte ad una singolare prospettiva. "Federalismo" (o regionalismo forte) versus eguaglianza. "Federalismo" (o regionalismo forte) discriminatorio, contrastante con l'eguaglianza.
E' difficile dire sin da ora quale dei due scenari sarebbe destinato ad affermarsi ed a prevalere se la riforma costituzionale andrà in porto.
Molto dipenderà dalla politica, dalla "costituzione materiale" cioè dal nucleo di forze sociali e politiche dominanti che si troverà a gestire il nuovo assetto ed il nuovo modello costituzionale.
Ma già il fatto che su terreni così delicati e vitali come quello della salute e della istruzione questi scenari possano essere plausibilmente prefigurati dà una misura delle incertezze e delle inquietudini che il progetto alimenta.
Ragionare tempestivamente su questi rischi e su questi pericoli è perciò particolarmente importante.
In quest'ottica è indispensabile tenere unite le riflessioni e le preoccupazioni sulla sorte di fondamentali diritti sociali con le riflessioni e le preoccupazioni sulle nuove tensioni che potranno investire il giudiziario sommandosi a quelle già esistenti.
Nell'arco della storia repubblicana i giudici hanno assolto la funzione di garanti di ultima istanza del godimento, in condizioni di uguaglianza su tutto il territorio nazionale, di fondamentali diritti sociali, tra cui appunto il diritto alla salute ed all'istruzione.
Se la riforma del Titolo V della Costituzione dovesse autorizzare la moltiplicazione dei sistemi sanitarie e scolastici e la diversificazione su base regionale dei regimi giuridici di accesso alle relative prestazioni verrebbe revocata in dubbio la stessa idea di uguaglianza "giuridica" dei cittadini sancita dal primo comma dell'art. 3 della Costituzione e relegato al rango di morta utopia il processo di realizzazione dell'eguaglianza di fatto delineato dall'art. 3 capoverso della carta.
Gli esempi potrebbero essere molti.
Si pensi - sul terreno delicatissimo dell'assistenza sanitaria - alla possibile previsione di priorità di accesso per i residenti (rispetto ai non residenti) a centri sanitari di eccellenza a prescindere dalla oggettiva gravità delle patologie lamentate o, ancora, all'introduzione di sistemi di pagamento - o di contribuzione - fortemente differenziati esclusivamente sulla base del criterio della residenza o meno nella regione dei pazienti.
Ed analoghi scenari potrebbero verificarsi sul terreno dell'istruzione, aggravati dalle forme di diversificazione culturale su base regionale rese possibili dal potere delle Regioni di definire la "parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione" (art. 117, comma 4, lett. c).
A fronte di questi possibili sviluppi non sarebbe azzardato ipotizzare l'emergere di contrasti profondi tra le garanzie contenute nella prima parte della Costituzione e le concrete modalità di erogazione dei servizi su base regionale e di correlata fruizione dei diritti.
Un fronte di tensioni che chiamerebbe in causa direttamente la funzione del giudiziario e coinvolgerebbe giudici ordinari e giudice delle leggi in un confronto prevedibilmente assai aspro.
Che non si tratti di mere ipotesi, di vaghe elucubrazioni è confermato da molti fattori: le dichiarazioni di forze politiche tanto chiassose quanto influenti, le preoccupazioni manifestate da molti studiosi, i timori nutriti da quella parte della popolazione che ha cultura, attenzione ed informazione sufficiente per immaginare il futuro possibile.
Roma, 9 novembre 2005